Miracoli del capitalismo
OPERAI SCHIACCIATI E TERRITORI DEVASTATI, UNA CRONACA DAL VENETO
“Avere a che fare con le macchine comporta sempre un certo rischio, perché la carne è carne, e le macchine, a volte, sembra che partano da sole … Le macchine in generale, ma le presse
specialmente. Difficile che passi un anno senza che, sul “Giornale di Vicenza”, non ci sia almeno un articolo in cronaca che descrive come un operaio, più o meno esperto, addetto a una pressa,
più o meno grande, sia rimasto inspiegabilmente schiacciato appunto sotto la pressa che stava pulendo, non senza prima averla opportunamente messa in sicurezza, ovvero disattivata, senza contare
che, per attivarla, sempre così l’articolo, bisognava sempre premere non uno, ma due pulsanti contemporaneamente; eppure eccetera; e visto che non credo che le presse vicentine siano più
maledette delle altre, presumo sia così più o meno ovunque, in Italia e anche fuori d’Italia. Personalmente, forse anche per la mia esperienza, delle macchine in generale, e delle presse in
particolare, non mi sono mai fidato. Mi ci sono infilato sotto solo una volta, e una volta mi è bastata. Bruttissima esperienza. Stesi su una piastra d’acciaio, con sopra un’altra piastra
d’acciaio, cioè dentro una macchina che è fatta apposta per schiacciarti non appena si presenti l’occasione, ci si sente esattamente così: una buona occasione.”
E’ questa la testimonianza di un lavoratore divenuto scrittore, il vicentino Vitaliano
Trevisan, nel suo romanzo autobiografico Works, ad illustrare alcuni casi di quella calamità che sotto il nome di “incidente sul
lavoro” sta mietendo vittime oltre ogni precedente nei posti di lavoro del Veneto. La provincia vicentina è capolista nella speciale classifica dei morti e degli infortuni sul lavoro nel Veneto
e, pertanto, tra le prime in tutto il paese. Un nuovo record per i padroni (li chiamano anche imprenditori) e tutta la classe dirigente leghista e politico affarista e arraffista.
Riportiamo alcuni dati. In Veneto sono state registrate dieci vittime al mese, facendo salire fino al 26% l’incremento della mortalità, più del doppio rispetto alla media nazionale (+10%). Nel
2018 ci sono state 115 vittime (69 e 46 in itinere), 24 in più rispetto al 2017. Gli infortuni non mortali sono stati ben 76.486, 2386 in più dell’anno precedente.
Ma si sa, le cifre allarmano poco, ma poi allarmare chi? E perché? Le cifre non si perdono, restano, negli archivi, ma i casi umani, le persone, le vite, si. E’ allora il caso di entrare di più
dentro le notizie. Non quelle fornite dai mass media, che appaiono nel tg regionale e che vedi nel Giornale di Vicenza il giorno dopo con foto della vittima e circostanze dell’incidente e poi non
vedi più niente perché la vicenda si affida alle “indagini di rito”. No.
Sebastiano La Ganga, Mariano Bianchin, Maurizio Bovo. Il primo era esperto escavatorista, messinese d’origine, abituato al lavoro
lontano, trasferitosi al nord con la famiglia per seguire i lavori della Spv (Supestradapedemontanaveneta). E’ in questo cantiere che ha trovato la morte, schiacciato da un enorme masso
staccatosi dalla volta della galleria. La famiglia è stata risarcita dall’assicurazione dell’impresa (il consorzio SIS) con un milione di euro ed è uscita dal procedimento legale. La procura
aveva aperto un’inchiesta, ma la perizia esclude una colpa organizzativa dell’impresa, così come carenze del progetto, a sentire l’avvocato degli indagati. L’infortunio è successo per un errore
umano… il progetto non è stato rispettato…concatenazioni sfortunate. Insomma, tocca al PM, al termine delle indagini, esprimersi. Boh, aspettiamo. Nell’attesa emergono gli sconcertanti contenuti
delle intercettazioni disposte dalla procura ai capicantiere.
“Gli operai hanno paura, non vogliamo entrare in galleria, dicono, che viene giù tutto”. Fessurazioni e crepe erano evidenti; c’erano distacchi di cemento dalla volta quando si usava l’esplosivo
per andare avanti con lo scavo…. Tutti risultano consapevoli che i materiali usati (cemento, acciaio, tubi, pozzetti) non erano conformi alle normative, cioè meno resistenti del dovuto. La
procura ha fatto sequestrare tutto e ha ordinato di puntellare la galleria. Incazzatura di costruttori ed imprenditori. Lite Lega/5 stelle. Nel frattempo Salvini e Zaia, in pompa magna,
inaugurano i primi sette km di questa autostrada che giorno dopo giorno si rivela sempre più come un autentico flagello, una calamità per la popolazione locale. La procura dissequestra. Cosa
resta della morte di questo operaio?
Mariano Bianchin ha 50 anni e lavora alla Smev, metalmeccanica di Bassano del Grappa, da molto tempo, quando quel giorno di gennaio del 2016, nel posizionare degli spessori sotto la pressa,
questa si era messa in movimento, schiacciandolo. Risulta che le fotocellule installate a protezione della zona pericolosa erano state disattivate e che ai comandi della pressa fosse un
lavoratore interinale istruito pochi minuti prima. Le fotocellule erano state disinserite par aumentare il ritmo di lavoro. Un aumento che è costato la vita a Mariano.
C’è un’accusa di omicidio colposo: i vertici aziendali hanno consentito l’uso del solo comando a pulsantiera, senza aver nemmeno informato gli operai del pericolo ed affidato il comando della
macchina a lavoratori inesperti. Ci sono degli avvisi di garanzia. A chi? Ai cittadini tedeschi, Roger Maurer e Thomas Maile, presidente e amministratore delegato della Smev, i quali lo hanno
ricevuto con molto ritardo, perché irreperibili, e continuano in fase preliminare nell’atteggiamento ostruzionistico nei confronti della giustizia italiana (ricordate Thyssen Krupp?). Già perché
in Germania la legge non prevede la responsabilità penale dei dirigenti e nei casi di incidenti sul lavoro risponde solo la società.
La direzione aziendale si è comunque premurata di recapitare alla famiglia della vittima una vergognosa offerta in denaro, per ritirarsi dal procedimento. L’offerta è stata rifiutata. Si era
offerta pure di pagare le spese del funerale, ma ha ritirato l’offerta nel momento in cui la famiglia si è rivolta ad un legale. A settembre ci sarà l’ultima udienza preliminare poi dovrebbe
iniziare il processo.
Su Maurizio Bovo, 57 anni di Valdagno, metalmeccanico anche lui, di parole possiamo spenderne davvero poche. C’è la sua foto, in ferie, ancora un ragazzone, moglie e due figli, due anni per la
pensione…
E’ morto travolto da una trave d’acciaio staccatasi dal carro ponte. Non ha avuto scampo. Un paio di giorni in cronaca con una doverosa nota, di spalla, sull’incremento degli infortuni in regione
e poi basta. Il resto secondo copione, cioè indagini di rito, carabinieri, Spisal, magistratura…. Si chiuderà così?
Per rimanere fedeli alla citazione iniziale, abbiamo illustrato tre casi di operai morti per schiacciamento. Una modalità che interessa molti altri decessi sul lavoro. Gli operai infatti possono
anche morire schiacciati da un camion in manovra, da una ruspa, dal più classico muletto, dal trattore. Alle Acciaierie Venete di Padova, sono stati travolti in quattro da un contenitore di
acciaio fuso piombato a terra, due sono deceduti, gli altri ne porteranno per sempre i segni. Per il resto, cioè per gli altri modi con cui gli operai perdono la vita nei luoghi di lavoro, si
tratta soltanto di far mente locale a quegli articoli che troppo brevemente compaiono in cronaca e che troppo in fretta sono dimenticati. Con il metro della coscienza di classe vi si potranno
trovare situazioni e casi da far tremare le vene ai polsi per la rabbia. L’ultimo il 22 luglio: “Stroncato da un malore mentre lavora in cantiere: stramazza al suolo e muore sul colpo”. Cosa è
successo? Il “caldo africano” – dicono giornali e tv – ha mietuto una vittima: Ferruccio Cillo, operaio di una cooperativa addetta per il comune di Pozzonovo alla manutenzione stradale. Già, il
“caldo africano” è il killer silenzioso che ghermisce la vittima, un operaio di 67 anni, a mezzogiorno di una giornata insopportabile per temperatura e umidità, dietro a una strada trafficata.
Questo operaio non avrà nemmeno il diritto ad essere catalogato come vittima del lavoro; è il caldo africano che l’ha ucciso.
Come si può parlare di fatalità dietro a questa strage ininterrotta? I casi che abbiamo indicato dimostrano che la tragica fatalità non esiste. Responsabili sono padroni e dirigenti, responsabile
è il modo di produzione capitalistico, la competitività, la rincorsa ai profitti che fanno attribuire un inconsistente valore alla vita umana (degli operai). La sicurezza è un costo aziendale che
va abbattuto, come i salari, aumentando l’intensità dello sfruttamento, l’orario e i ritmi per addetto, creando competizione tra i lavoratori attraverso il ricatto occupazionale. In questa
desolazione i lavoratori non sono più persone, ma “risorse umane”, “capitale umano” o esuberi quando va peggio. Quanto diciamo è facilmente verificabile, soprattutto per i lavoratori delle ditte
in appalto. Ogni appalto infatti è basato sull’abbattimento del costo del lavoro e sull’aumento della produttività, due elementi che producono inevitabilmente poca sicurezza.
I problemi di salute e sicurezza stanno al centro degli interessi dei lavoratori che per essi hanno scioperato e lottato. La nostra lotta di classe quindi deve interessare questi temi, così come
è stato nel passato, più o meno recente*.
La semplice denuncia dei misfatti del capitalismo non può più bastare se ad essa non si accompagnano azioni, iniziative, l’aumento generalizzato della conflittualità nelle fabbriche e nei
territori. La strage di operai sul lavoro e di lavoro mette a nudo l’intero sistema di sfruttamento e rende evidente a tutti la fine di ogni garanzia (i diritti) sul lavoro. I padroni devono
trovarsi davanti al problema di una manodopera che non obbedisce più, nemmeno alla disciplina sindacale. Davanti a territori determinati a presentare il conto delle loro devastazioni. Loro, hanno
da tempo rotto ogni relazione di stabilità nei loro rapporti con la classe operaia. Hanno disposto una offensiva di classe che è divenuta guerra generalizzata e ogni compromesso sindacale si
rivela per quello che è: una sconfitta.
“...il caso forse più drammatico fu quello dello sciopero del Black Lung, del “polmone nero”, in West Virginia. Una fredda mattina di febbraio, nel 1969, alla miniera di Winding Gulf District,
nella West Virginia, un minatore, stanco della mancanza di progressi sulle questioni della salute e della sicurezza, versò per terra la propria acqua. Questo atto di ribellione era l’appello
tradizionale agli altri minatori a unirsi in sciopero. I suoi compagni di lavoro incrociarono le braccia e nel giro di cinque giorni lo sciopero selvaggio si estese a 42.000 dei 44.000 minatori
di carbone della West Virginia. Essi continuarono lo sciopero per 23 giorni, fino a quando l’Assemblea Legislativa dello Stato approvò una legge sull’indennizzo per le vittime della pneumoconiosi
– il “polmone nero” – la malattia più temuta dai minatori.” (Jeremy Brecher, Sciopero! – 1997).
Luciano Orio
Dalla rivista “nuova unità”