NOCIVITÀ E LOTTA DI CLASSE
Costruiamo una piattaforma di lotta contro la nocività in fabbrica e nel territorio
L’intensificazione dell’attività della massa operaia è possibile solo se non ci limitiamo all'agitazione politica sul terreno economico e una delle condizioni essenziali per il necessario ampliamento dell’agitazione politica è l’organizzazione di denunce politiche che investano tutti gli aspetti della società. (V.I.Lenin)
Un breve articolo in cronaca di questi giorni attira la mia attenzione: “Tante tragedie annunciate, cosa si aspetta ad intervenire?” chiede la CGIL che, dopo la serie di disgrazie sul lavoro nel Veneto, annuncia di essere pronta alla mobilitazione. Per dimostrare la serietà delle proprie intenzioni si reca allora dal prefetto al quale manifesta la propria forte preoccupazione e chiede di attivare il tavolo provinciale per coordinare interventi mirati……
La mia prima reazione, toh, se ne sono accorti anche loro, è ingenua e lascia subito spazio all'idea che, necessariamente, anche il sindacato istituzionale deve occuparsi del problema, non tanto per invitare alla mobilitazione, quanto intervenire per calmierarla. Tuttavia la presa di posizione dà la misura del problema e giustifica la mia preoccupazione per i possibili futuri scenari di lotta autentica e relativo possibile pompieraggio, dato che le condizioni per una lotta estesa e ramificata esistono evidenti: il numero di infortuni e di decessi per malattie professionali è in costante ascesa e di fronte a questi numeri il padrone è nudo.
Nessuna fatalità; è il profitto la madre di tutte le disgrazie sul lavoro, gli operai lo sanno bene, ma nella maggior parte dei casi ogni tragedia viene vissuta singolarmente. Tocca alla famiglia farsene carico, la rabbia dei compagni di lavoro se c’è non appare o si accontenta dell’ora dello sciopero di routine.
Rassegnazione e fatalità.
E’ questo isolamento che dobbiamo rompere, prima di tutto. Che è un isolamento di classe. Le morti di lavoro colpiscono singoli operai, lavoratori che rimangono isolati, presi uno per uno e raccontati nella propria specificità, mentre della loro appartenenza di classe non si ha voce. Mai che si mettano in discussione le condizioni di lavoro, di sfruttamento, di oppressione. Per troppi anni padroni e servi vari hanno raccontato in tutte le salse che la classe operaia non esisteva più. Non gli bastava vincere e prendersi tutto: la paga, i diritti, il tempo e a volte anche la vita. Si son portati via anche il nome e il diritto ad esistere. Ora siamo tutti ceto medio, tutti assieme, sfruttati e sfruttatori, siamo tutti nella stessa barca, dicono loro.
Anche qui nel vicentino abbiamo attraversato questa realtà nel corso degli “ultimi” anni, solidarizzando con quel movimento di lotta che si sviluppava intorno alle grandi fabbriche, la maggior parte ormai chiuse, il cui nome riassumeva la vertenza in atto (Breda, Montedison, Pirelli, Eternit….e poi Thyssen Krupp, la Tricom, qui per noi), .lotte che mettevano al centro la condizione dei lavoratori, della loro salute compromessa, abbinata allo stato del territorio anch'esso sfruttato, deturpato e abbandonato.
La pratica di controinformazione e denuncia politica, di mobilitazione di quel movimento di lotta ha messo al centro la lotta intransigente al padrone assassino, ed è stata condotta, in condizioni diverse, con concreto spirito di classe. La partecipazione solidale dei famigliari è stata la verifica di questo agire politico. Dal rapporto con loro sappiamo se e quanto è corretto. Chi partecipa non è disposto ad essere solo uno spettatore passivo.
Queste lotte, laddove espresse, come nei presidi davanti ai tribunali, nelle manifestazioni, nei momenti assembleari, pubblici hanno rotto con le pratiche istituzionali e i riti della giustizia borghese, ponendo il problema del sistema economico e politico capitalista basato sul profitto. Certo, i risultati, spesso amari, se per risultati intendiamo le sentenze dei tribunali, possono aver lasciato il segno in tanti proletari; eppure quanta caparbietà e dignità operaia anche in quei luoghi.
Quanta determinazione ad esigere giustizia come un incontenibile bisogno umano.
Eppure è proprio grazie a queste lotte, alla loro visibilità, al dolore di queste persone che abbiamo capito la reale portata sociale della piaga amianto in Italia. E’ stata questa la via giusta ed utile per noi: la socializzazione di tante singole storie ha dato un senso alla tragedia, per evitare che altri lavoratori dovessero vivere esperienze così devastanti.
Per far conoscere, divulgare ed assimilare la dimensione di un problema che il padrone e i suoi servi non potranno mai raccontare: la storia degli sfruttati non può coincidere con quella degli sfruttatori.
Erano e sono esperienze forti che hanno costruito una sensibilità sul tema, quella che oggi è indispensabile riprendere. La mancanza di una voce forte in grado di sostanziare il problema (battere il chiodo) lo fa passare in secondo piano. Servirebbe superare la logica emergenziale (è inconcepibile! è inammissibile!), che fa precipitare tutto nel più assoluto silenzio, e la ristrettezza con la quale viene trattato per tentare di dare una risposta collettiva alle morti di lavoro. Da dove ripartire?
Una riposta che non può che nascere e svilupparsi a partire da queste esperienze e dalle fabbriche, dai luoghi di lavoro. Di solito alla chiusura dello stabilimento inquinante fa seguito la fine di ogni rivendicazione, dato che si perde ogni interesse connesso all'attività lavorativa e inevitabilmente si perde quell'attività di coordinamento e mobilitazione che accompagna le rivendicazioni della classe operaia. E’ quindi grazie a queste lotte se l’attenzione su questi temi è rimasta elevata. La difesa della salute dei lavoratori, poi, è anche difesa dell’ambiente. Lo sfruttamento di entrambi ha un unico carattere, quello capitalista.
Con la chiusura degli stabilimenti si apre una nuova fase della lotta, che non rimane chiusa tra le mura della fabbrica, ma coinvolge la società con l’obbiettivo di costruire una tutela realmente efficace per i futuri ammalati (dentro e fuori gli stabilimenti e non soltanto gli ex operai).
Si tratta di costruire una rete di comunicazione con i lavoratori attraverso i sindacati conflittuali e gli organismi di lotta. Sul piano sindacale la collaborazione dovrebbe essere estesa e ramificata a tutte le componenti sindacali conflittuali (sui morti di lavoro c’è poco da mediare), disposte a collaborare per una conoscenza complessiva dei problemi di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. Promuovere un lavoro di indagine e di informazione attraverso campagne volte a sensibilizzare sul tema lavoratori e cittadini.
Una collaborazione tra soggetti interni alla classe operaia e in un territorio circoscritto: un terreno favorevole per conoscere e monitorare le situazioni, entrare in contatto con i famigliari dei lavoratori caduti, verificarne la disponibilità alla lotta. Una ricerca dei luoghi adatti per identificare e snidare i responsabili e rendere pubbliche ogni violazione e attività illecita. Ci sono tanti tipi di responsabilità, oltre quella penale: politica, amministrativa, professionale, morale… ad evitare anche che la legge ed il diritto arrivino ad “anestetizzare” la lotta.
La lotta paga, si vince. Però si può anche perdere. E’ normale. Però il successo di una lotta determina lo sviluppo dell’organizzazione. Il vero risultato della lotta non è la conquista immediata ma l’organizzazione. Da questo punto di vista abbiamo molto da imparare.
Nei mesi scorsi in Italia, dopo alcuni anni di quasi insostenibile ritirata sindacale, i lavoratori e le lavoratrici hanno reagito all'impreparazione dello stato e delle imprese nell'affrontare l’emergenza dell’epidemia con un’ondata di scioperi spontanei. Quale prospettiva di consolidamento sociale e politico possiamo offrire a riguardo?
Luciano Orio
Dalla rivista “nuova unità”, n. 5 /2020